Una interessantissima sentenza del TAR Piemonte permette oggi di disporre di nuovi e decisivi elementi per una ridefinizione del rapporto tra gli appartenenti alle forze armate e di Polizia ed il diritto di associazione garantito dalla Costituzione con riferimento all’iscrizione ai partiti ed alla partecipazione alle attività politiche in generale.

La Sentenza è, sotto molti aspetti, illuminante poiché chiarisce che il principio di estraneità delle Forze Armate alle competizioni politiche, non può essere inteso estensivamente, come riferibile anche ai comportamenti tenuti, nel privato, da ciascun singolo appartenente.

L’iscrizione ad un partito, lo svolgimento di attività politica e l’assunzione di cariche direttive in seno ad un partito politico, da parte di un appartenente alle Forze Armate, non possono essere sanzionati senza che sia mai stato provato o che sia stato contestato di aver effettivamente preso parte a manifestazioni politiche o di propaganda politica, durante l’attività di servizio, o in luoghi a ciò destinati, o indossando l’uniforme o qualificandosi in relazione all’attività di servizio come militare o rivolgendosi ad altri militari in divisa o qualificatisi come tali.

La questione di fatto ha riguardato l’impugnazione, presso il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, del rigetto del ricorso gerarchico proposto nei confronti di un provvedimento disciplinare di corpo (Consegna di rigore di giorni cinque), comminata ad un Maresciallo dei Carabinieri perché “”… comunicava al proprio comando di essersi iscritto a partito politico; avere assunto carica sociale quale segretario regionale in seno ad altro partito politico, respingendo reiteratamente ogni invito a recedere, in violazione dei doveri attinenti al grado ed alle funzioni del proprio stato, nonché del principio di estraneità delle FF.AA. alle competizioni politiche".

In effetti il ricorrente aveva comunicato ai propri superiori la circostanza di aver assunto la carica politica di Segretario regionale per il Piemonte in seno al PSD–Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa. Tuttavia, il Comandante della Legione Carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” lo aveva formalmente ammonito a recedere dalla carica politica avvertendolo che, in caso di inottemperanza, sarebbe stato avviato il procedimento per la diffida ministeriale ed eventuale successiva decadenza dal servizio, ai sensi dell’art. 1, commi 1 e 3, dell’(allora vigente) legge n. 37 del 1968. Nella motivazione di tale atto l’amministrazione ha sostenuto che “l’iscrizione e l’assunzione di carica sociale in seno a partito politico, costituisce comportamento suscettibile di assumere rilievo sotto il profilo disciplinare, ai sensi del nr. 9 dell’allegato ‘C’ al R.D.M.” (Regolamento di Disciplina Militare, di cui al d.P.R. n. 545 del 1986), trattandosi di “incarico incompatibile con l’adempimento dei Suoi doveri di sottufficiale”, in proposito richiamando l’(allora vigente) art. 6, comma 1, della legge n. 382 del 1978, a norma del quale “Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche”.

L’amministrazione ha anche aggiunto che la carica politica ricoperta dal Maresciallo Cataldi “implica necessariamente l’esercizio di funzioni attive a carattere propriamente politico, atteso che, quale Segretario Regionale, la S.V. siede – oltretutto con voto deliberativo – sia nel Consiglio Nazionale che nella Direzione Nazionale del partito, ex artt. 9 e 10 dello statuto del partito medesimo”.

Respinta la richiesta cautelare di sospensione del provvedimento, la questione è pervenuta, nel merito, alla decisione del TAR Piemonte che, con Sentenza 01127/2016 del 29 giugno 2016, ha accolto il ricorso e disposto l’annullamento di tutti i provvedimenti impugnati, compresa la sanzione inflitta al maresciallo.

Nella motivazione della sentenza si legge che la questione è stata, da ultimo, approfondita da alcuni assunti giurisprudenziali che, per fattispecie del tutto analoghe, ed in considerazione del complessivo quadro normativo (costituzionale e legislativo) vigente, sono giunti alla condivisibile conclusione di ritenere illegittimo il divieto per i militari di iscriversi in partiti politici e di assumere nel loro ambito cariche direttive, alla luce di un’interpretazione letterale e sistematica delle norme (cfr. TAR Umbria, sent. n. 409 del 2011; TAR Veneto, sez. I, sent. n. 1480 del 2012).

La disciplina normativa qui rilevante viene ricostruita con esclusivo riferimento alle norme dettate dal d.lgs. n. 66 del 2010 che concerne l’esercizio dei diritti politici del militare Tuttavia è evidente la valenza generale della pronuncia, considerato che anche per la Polizia di Stato il disposto del comma 1 dell’art. 81 della Legge 01/04/1981, n. 121, recita “gli appartenenti alle Forze di Polizia debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche e non possono assumere comportamenti che compromettano l’assoluta imparzialità delle loro funzioni”. Imprescindibile punto di partenza è l’art. 49 Cost., a norma del quale “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Le possibili limitazioni sono consentite al legislatore secondo quanto previsto dall’art. 98, comma 3, Cost.: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero”. Tuttavia, il legislatore non ha mai stabilito per i militari, in modo duraturo, un esplicito divieto di iscrizione ai partiti politici: ciò non ha fatto, espressamente, né nella legge n. 382 del 1978 (recante “Norme di principio sulla disciplina militare”) né nel Regolamento di disciplina militare (approvato con d.P.R. n. 545 del 1986).

Vi è solo stata la norma dichiaratamente transitoria di cui all’art. 114 della legge n. 121 del 1981 con cui si è stabilito, in attesa di una disciplina generale di attuazione dell’art. 98, comma 3, Cost., che, “comunque non oltre un anno dall'entrata in vigore della presente legge”, “gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 della presente legge [tra cui, anche l’Arma dei Carabinieri, n.d.r.] non possono iscriversi ai partiti politici”. Tale divieto transitorio, è stato poi prorogato di anno in anno, con successivi interventi legislativi, fino al 31 dicembre 1990 (da ultimo, con la proroga disposta dall’art. 1 del decreto-legge n. 81 del 1990, convertito in legge n. 159 del 1990) e poi non è stato più rinnovato. Il mancato rinnovo del divieto, secondo i giudici del TAR Piemonte, costituisce circostanza senz’altro rilevante ai fini di ricostruire l’attuale volontà del legislatore, sicché nemmeno con il varo del codice dell’ordinamento militare (d.lgs. n. 66 del 2010), ossia della disciplina che si propone di regolare, in modo organico, l'organizzazione, le funzioni e l'attività della difesa e sicurezza militare e delle Forze armate, quel divieto è stato più riproposto o, comunque, riformulato.

Piuttosto, il d.lgs. n. 66 del 2010 ha ripreso, con minime modifiche, la disciplina che, in punto di esercizio dei diritti politici del militare, era già stata introdotta con l’art. 6 della legge n. 382 del 1978. E’ stato così ribadito il generale principio di estraneità delle Forze Armate dalle competizioni politiche (art. 1483, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010: “Le Forze armate devono in ogni circostanza mantenersi al di fuori dalle competizioni politiche”, corrispondente al testo dell’art. 6, comma 1, della legge n. 382 del 1978), ed è stato confermato l’unico specifico divieto già introdotto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 382 del 1978: “Ai militari che si trovino nelle condizioni di cui al comma 2 dell'articolo 1350, è fatto divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative” (così l’attuale art. 1483, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010).

Secondo il TAR Piemonte non è condivisibile l’assunto secondo il quale il divieto di svolgimento di attività politica riunirebbe in sé anche quello di mera iscrizione nei partiti politici, “pena l’esposizione della norma a censura d’irrazionalità”.

Invero, a conclusione diversa fa propendere la circostanza che, quando il legislatore ha voluto – sia pure transitoriamente – introdurre un divieto di iscrizione dei militari ai partiti politici, ciò ha fatto con formula inequivocabilmente precisa e perentoria (“gli appartenenti alle forze di polizia [...] non possono iscriversi ai partiti politici”: art. 114 della legge n. 121 del 1981), poi non più riproposta nemmeno nella nuova disciplina organica dell’ordinamento militare. E solo una formula di tal fatta sarebbe stata idonea, nel vigente quadro costituzionale, ad introdurre quella limitazione che, in quanto eccezione ad un diritto fondamentale dei cittadini (quello di cui all’art. 49 Cost.), e pur se frutto di un bilanciamento tra contrapposte esigenze costituzionali, è non a caso assistita dalla garanzia della riserva di legge (art. 98, comma 3, Cost.). Al contrario, nella disciplina di legge attualmente vigente non è rinvenibile alcuna disposizione che, in modo espresso ed inequivoco, faccia divieto ai militari di iscriversi in partiti politici o di assumere cariche nel loro seno.

Pertanto, il precetto di cui all’art. 1483, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010 rimane ancorato, letteralmente, al solo divieto di partecipare a manifestazioni politiche o di svolgere propaganda politica, per di più solo in presenza delle particolari modalità di esercizio di cui al richiamato art. 1350, comma 2 (servizio attivo), ponendosi in tal modo al di fuori della garanzia costituzionale della riserva di legge.

L’art. 1483, comma 2, del codice , dunque, nell’imporre la già menzionata limitazione al diritto di partecipare a manifestazioni politiche e a quello di effettuare propaganda politica attiva, espressamente la circoscrive alle sole ipotesi di cui all’art. 1350, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010, ossia alle ipotesi in cui il militare si trovi in servizio attivo o la cui attività si trovi in qualche modo collegata a luoghi o a simbologie che, richiamando immediatamente la sua appartenenza all’Arma, possano ingenerare il rischio di inquinamento politico in capo all’amministrazione di appartenenza. Laddove, invece, il militare non si trovi a svolgere attività di servizio né si trovi nelle altre circostanze di luogo o di fatto descritte, quei divieti – per espressa disposizione di legge – non sussistono.

Come ritenuto in giurisprudenza, pertanto, l’obbligo espresso per le Forze armate di mantenersi, in ogni circostanza, al di fuori dalle competizioni politiche è univocamente limitato, dall’art. 1350, comma 2, a coloro i quali si trovino “in una” delle condizioni ivi tassativamente indicate, con la conseguenza che esso non può essere esteso a tutti i militari sulla base della mera condizione soggettiva di essere un appartenente alle Forze armate (così TAR Veneto, sez. I, sent. n. 1480 del 2012).

In conclusione, secondo i giudici amministrativi, i descritti divieti, anche qualora ricorrenti per le condizioni di fatto o di luogo descritte dal comma 2 dell’art. 1350, riguardano unicamente i comportamenti descritti dall’art. 1483, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010, nei quali – per quanto già detto in precedenza – non rientra la mera iscrizione in partiti politici o l’assunzione di una carica direttiva in seno ad essi.

Roma, 17 settembre 2016             La Segreteria Nazionale

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